Miliardi senza controllo
di BARBARA CARAZZOLO, ALBERTO CHIARA e LUCIANO SCALETTARI
Passa da questo canale l’80 per cento della nostra cooperazione. Senza nessun controllo.
«Sui fondi che l’Italia versa nelle casse delle agenzie internazionali (Onu e Unione europea) non c’è controllo». Lo denunciano sia il senatore Boco sia il presidente dell’Associazione delle Ong Marelli.
«Nella scorsa legislatura», spiega Boco, «ho cercato di sapere dal Parlamento quale controllo viene esercitato. Non ho mai avuto risposta». Eppure, aggiunge Marelli, si tratta di una cifra consistente, circa 500 miliardi, che il nostro Paese versa all’Unicef, alla Fao, al Pam, e agli altri organismi internazionali, sui quali non c’è alcuna verifica, né supervisione. Una cifra pari all’80 per cento delle risorse italiane destinate alla cooperazione, perché dall’epoca di Tangentopoli in poi, il nostro Paese ha accresciuto sempre più questo canale di finanziamento a scapito dei progetti sostenuti direttamente dalla Farnesina.
Al riguardo, Famiglia Cristiana ha preso in esame l’impegno complessivo della nostra cooperazione su un Paese specifico: la Somalia, che può essere considerato emblematico per le condizioni particolarmente difficili del Paese (è in stato di guerra civile dal 1991, e solo il Nordest è pacificato).
Ebbene, tutti i fondi della cooperazione destinati alla Somalia passano attraverso le agenzie internazionali. L’Italia cofinanzia il Programma di riabilitazione della Commissione europea (10 miliardi di lire l’anno nel triennio 1998-2000). Gli altri fondi sono stati versati alle agenzie dell’Onu: Unicef, Undp, Fao, Unesco e altre. Nel 2000, l’impegno totale italiano è stato di 25 miliardi di lire. E all’inizio del 2001 sono stati approvati ulteriori 13,5 miliardi.
La gran parte di questi finanziamenti vengono utilizzati da Ong italiane, presenti da anni in Somalia (Africa 70, Aps, Cefa, Cisp, Coopi, Intersos), per realizzare progetti sanitari, educativi e di sviluppo agricolo. Fin qui, niente di strano. La Somalia non ha un governo riconosciuto, e la via più semplice per gli aiuti è quella delle agenzie internazionali che poi impiegano Ong italiane. Un’indagine ulteriore, tuttavia, ha permesso di scandagliare due progetti in particolare.
Il primo. L’Italia, un paio d’anni fa, dona un milione di dollari (all’epoca poco più di due miliardi di lire) alla Fao. Il finanziamento resta a lungo inutilizzato. Nel luglio del 2000 Farnesina e Fao concordano di destinare i fondi (aumentati a un milione e 350 mila dollari) a un progetto di certificazione della sanità animale del bestiame somalo destinato all’esportazione.
Lo scopo è di rispondere a un problema reale: privo di governo riconosciuto, il Paese non ha un’istituzione in grado di garantire che le greggi esportate siano sane. Chiediamo al ministero degli Esteri tutta la documentazione relativa al progetto. Ci viene opposto un segreto d’ufficio: si possono solo ottenere informazioni verbali.
Nonostante ciò, veniamo in possesso di un documento, nel quale la Farnesina indica due organismi italiani per la realizzazione del progetto: «Due rilevanti Organizzazioni non governative» italiane – c’è scritto – Cins (Cooperazione italiana Nord Sud) e Copam (Cooperazione Padania mondo).
Appuriamo, invece, che nessuna delle due ha mai realizzato progetti nel settore zootecnico, pur essendo in effetti presenti in Somalia. Il Cins sta realizzando programmi di sviluppo agricolo in Somaliland, nel Nord del Paese. Copam ha operato nella stessa area, nel settore sanitario e idrico, attrezzando di tutto punto alcuni ospedali.
Per conto del Cins, i rapporti con la Fao sono tenuti da Paola Murri, la moglie dell’ambasciatore italiano per la Somalia Francesco Sciortino (che solo due mesi fa sarebbe passato ad altro incarico). Inoltre, questo finanziamento avvia un nuovo programma con nuovi interlocutori anziché sostenerne uno assai simile, già avviato l’anno passato, che ha lo scopo di sradicare malattie che limitano l’esportazione di bestiame.
Tale progetto, messo in piedi dall’Organizzazione per l’unità africana (Oua) in 32 Paesi, già prevede in Somalia l’impiego di tre Ong. L’iniziativa dell’Oua, tra l’altro, è finanziata dalla Commissione europea, quindi anche con denaro italiano. Un doppione? Più o meno, perché la differenza fra i due sta nella certificazione legale che la Fao vorrebbe fornire, ma che presenta difficoltà: si andrebbero a violare accordi internazionali, che esigono la certificazione di un’autorità nazionale che la Somalia oggi non ha.
Famiglia Cristiana ha interpellato i responsabili di Cins e Copam. Rocco Borgia, del Cins, ha dichiarato di aver già riferito alla Fao di non avere le competenze per realizzare il progetto, che andrebbe affidato quindi a un team di esperti in campo veterinario. Ossia, si ritira. Quanto al fondatore di Copam, il senatore della Lega Fiorello Provera, dice: «Ero all’oscuro che la moglie dell’ambasciatore Sciortino curasse i rapporti con la Fao. Inoltre, alle mie richieste di chiarimenti, la Farnesina ha risposto che non c’è alcun altro progetto analogo in Somalia. A Copam interessa che si risponda al problema degli allevatori, non di essere i protagonisti dell’iniziativa. Se risultasse un doppione, l’abbandoneremmo un minuto dopo».
Il secondo progetto. Si tratta di 9 miliardi di lire, destinati dall’Italia alla civil protection, ovvero al ripristino della legalità in Somalia, curato dall’Undp, il programma di sviluppo dell’Onu. I nostri ripetuti tentativi di saperne di più e di avere i documenti relativi hanno ottenuto la stessa risposta della Farnesina: segreto d’ufficio.
Per avere qualche chiarimento abbiamo dovuto interpellare il viceresponsabile dell’Undp a Nairobi, l’italiano Andrea Tamagnini (altre fonti qualificate dell’Onu hanno invece preferito tacere). «Il progetto è diviso in quattro settori e ha l’obiettivo di ricostruire nel Paese il sistema giudiziario e il corpo di polizia, di smobilitare la milizia e, infine, di preparare le basi per lo sminamento dei territori», dice.
Chi se ne occupa?
«Per lo sminamento il sudafricano Jab Swart; per la smobilitazione della milizia Niasha Masiwa, dello Zimbabwe; per la ricostruzione giudiziaria l’avvocato italiano Gianfranco Cenci e, per la ricostruzione del corpo di polizia, il generale Luca Rayola Pescarini».
Il generale è stato, fino al febbraio scorso, ai vertici del Sismi, già responsabile per il Corno d’Africa e per la ricerca all’estero. È stato scelto per questo?
«Non era l’esperienza al Sismi che contava per noi, ma il fatto che fosse generale dei Carabinieri e ne avesse diretto una scuola. Non sono nemmeno sicuro che il comitato che ha fatto la selezione fosse totalmente al corrente della sua appartenenza al Sismi. Ha di certo esperienza per ricostruire la forza di polizia in Somalia. Per questo è stato scelto tra candidati provenienti da tutto il mondo».
Da quanto va avanti il progetto?
«Da parecchi anni. Ora sta realizzandosi in Puntland e in Somaliland, ma si spera presto di includervi anche la Somalia centrale. Sono già stati preparati oltre 700 poliziotti. Stiamo vedendo di coinvolgere anche la polizia svedese, che ha una lunga tradizione con l’Onu».
Il generale Luca Rayola Pescarini non è mai stato un carabiniere. Proviene dall’Esercito. Ai nostri tentativi di intervistarlo ha risposto di non voler più apparire sui giornali italiani, dopo le polemiche degli ultimi anni. Ma ci ha confermato di essere stato scelto dall’Onu anche per la sua esperienza al Sismi e per aver formato, anni fa, proprio la polizia somala.
Due vicende singolari, specie per l’imbarazzo dei nostri interlocutori di fronte alle domande. Singolare anche il fatto che lo stesso ex sottosegretario Serri (responsabile della cooperazione), da noi sollecitato, non è riuscito a recuperare la documentazione. Ha aggiunto che il programma di ricostruzione della legalità dell’Undp «non è passato attraverso di noi», mentre l’Ufficio stampa della Farnesina conferma che l’Italia vi ha destinato i nove miliardi.
Barbara Carazzolo,
Alberto Chiara,
Luciano Scalettari
«Sui fondi che l’Italia versa nelle casse delle agenzie internazionali (Onu e Unione europea) non c’è controllo». Lo denunciano sia il senatore Boco sia il presidente dell’Associazione delle Ong Marelli.
«Nella scorsa legislatura», spiega Boco, «ho cercato di sapere dal Parlamento quale controllo viene esercitato. Non ho mai avuto risposta». Eppure, aggiunge Marelli, si tratta di una cifra consistente, circa 500 miliardi, che il nostro Paese versa all’Unicef, alla Fao, al Pam, e agli altri organismi internazionali, sui quali non c’è alcuna verifica, né supervisione. Una cifra pari all’80 per cento delle risorse italiane destinate alla cooperazione, perché dall’epoca di Tangentopoli in poi, il nostro Paese ha accresciuto sempre più questo canale di finanziamento a scapito dei progetti sostenuti direttamente dalla Farnesina.
Al riguardo, Famiglia Cristiana ha preso in esame l’impegno complessivo della nostra cooperazione su un Paese specifico: la Somalia, che può essere considerato emblematico per le condizioni particolarmente difficili del Paese (è in stato di guerra civile dal 1991, e solo il Nordest è pacificato).
Ebbene, tutti i fondi della cooperazione destinati alla Somalia passano attraverso le agenzie internazionali. L’Italia cofinanzia il Programma di riabilitazione della Commissione europea (10 miliardi di lire l’anno nel triennio 1998-2000). Gli altri fondi sono stati versati alle agenzie dell’Onu: Unicef, Undp, Fao, Unesco e altre. Nel 2000, l’impegno totale italiano è stato di 25 miliardi di lire. E all’inizio del 2001 sono stati approvati ulteriori 13,5 miliardi.
La gran parte di questi finanziamenti vengono utilizzati da Ong italiane, presenti da anni in Somalia (Africa 70, Aps, Cefa, Cisp, Coopi, Intersos), per realizzare progetti sanitari, educativi e di sviluppo agricolo. Fin qui, niente di strano. La Somalia non ha un governo riconosciuto, e la via più semplice per gli aiuti è quella delle agenzie internazionali che poi impiegano Ong italiane. Un’indagine ulteriore, tuttavia, ha permesso di scandagliare due progetti in particolare.
Il primo. L’Italia, un paio d’anni fa, dona un milione di dollari (all’epoca poco più di due miliardi di lire) alla Fao. Il finanziamento resta a lungo inutilizzato. Nel luglio del 2000 Farnesina e Fao concordano di destinare i fondi (aumentati a un milione e 350 mila dollari) a un progetto di certificazione della sanità animale del bestiame somalo destinato all’esportazione.
Lo scopo è di rispondere a un problema reale: privo di governo riconosciuto, il Paese non ha un’istituzione in grado di garantire che le greggi esportate siano sane. Chiediamo al ministero degli Esteri tutta la documentazione relativa al progetto. Ci viene opposto un segreto d’ufficio: si possono solo ottenere informazioni verbali.
Nonostante ciò, veniamo in possesso di un documento, nel quale la Farnesina indica due organismi italiani per la realizzazione del progetto: «Due rilevanti Organizzazioni non governative» italiane – c’è scritto – Cins (Cooperazione italiana Nord Sud) e Copam (Cooperazione Padania mondo).
Appuriamo, invece, che nessuna delle due ha mai realizzato progetti nel settore zootecnico, pur essendo in effetti presenti in Somalia. Il Cins sta realizzando programmi di sviluppo agricolo in Somaliland, nel Nord del Paese. Copam ha operato nella stessa area, nel settore sanitario e idrico, attrezzando di tutto punto alcuni ospedali.
Per conto del Cins, i rapporti con la Fao sono tenuti da Paola Murri, la moglie dell’ambasciatore italiano per la Somalia Francesco Sciortino (che solo due mesi fa sarebbe passato ad altro incarico). Inoltre, questo finanziamento avvia un nuovo programma con nuovi interlocutori anziché sostenerne uno assai simile, già avviato l’anno passato, che ha lo scopo di sradicare malattie che limitano l’esportazione di bestiame.
Tale progetto, messo in piedi dall’Organizzazione per l’unità africana (Oua) in 32 Paesi, già prevede in Somalia l’impiego di tre Ong. L’iniziativa dell’Oua, tra l’altro, è finanziata dalla Commissione europea, quindi anche con denaro italiano. Un doppione? Più o meno, perché la differenza fra i due sta nella certificazione legale che la Fao vorrebbe fornire, ma che presenta difficoltà: si andrebbero a violare accordi internazionali, che esigono la certificazione di un’autorità nazionale che la Somalia oggi non ha.
Famiglia Cristiana ha interpellato i responsabili di Cins e Copam. Rocco Borgia, del Cins, ha dichiarato di aver già riferito alla Fao di non avere le competenze per realizzare il progetto, che andrebbe affidato quindi a un team di esperti in campo veterinario. Ossia, si ritira. Quanto al fondatore di Copam, il senatore della Lega Fiorello Provera, dice: «Ero all’oscuro che la moglie dell’ambasciatore Sciortino curasse i rapporti con la Fao. Inoltre, alle mie richieste di chiarimenti, la Farnesina ha risposto che non c’è alcun altro progetto analogo in Somalia. A Copam interessa che si risponda al problema degli allevatori, non di essere i protagonisti dell’iniziativa. Se risultasse un doppione, l’abbandoneremmo un minuto dopo».
Il secondo progetto. Si tratta di 9 miliardi di lire, destinati dall’Italia alla civil protection, ovvero al ripristino della legalità in Somalia, curato dall’Undp, il programma di sviluppo dell’Onu. I nostri ripetuti tentativi di saperne di più e di avere i documenti relativi hanno ottenuto la stessa risposta della Farnesina: segreto d’ufficio.
Per avere qualche chiarimento abbiamo dovuto interpellare il viceresponsabile dell’Undp a Nairobi, l’italiano Andrea Tamagnini (altre fonti qualificate dell’Onu hanno invece preferito tacere). «Il progetto è diviso in quattro settori e ha l’obiettivo di ricostruire nel Paese il sistema giudiziario e il corpo di polizia, di smobilitare la milizia e, infine, di preparare le basi per lo sminamento dei territori», dice.
Chi se ne occupa?
«Per lo sminamento il sudafricano Jab Swart; per la smobilitazione della milizia Niasha Masiwa, dello Zimbabwe; per la ricostruzione giudiziaria l’avvocato italiano Gianfranco Cenci e, per la ricostruzione del corpo di polizia, il generale Luca Rayola Pescarini».
Il generale è stato, fino al febbraio scorso, ai vertici del Sismi, già responsabile per il Corno d’Africa e per la ricerca all’estero. È stato scelto per questo?
«Non era l’esperienza al Sismi che contava per noi, ma il fatto che fosse generale dei Carabinieri e ne avesse diretto una scuola. Non sono nemmeno sicuro che il comitato che ha fatto la selezione fosse totalmente al corrente della sua appartenenza al Sismi. Ha di certo esperienza per ricostruire la forza di polizia in Somalia. Per questo è stato scelto tra candidati provenienti da tutto il mondo».
Da quanto va avanti il progetto?
«Da parecchi anni. Ora sta realizzandosi in Puntland e in Somaliland, ma si spera presto di includervi anche la Somalia centrale. Sono già stati preparati oltre 700 poliziotti. Stiamo vedendo di coinvolgere anche la polizia svedese, che ha una lunga tradizione con l’Onu».
Il generale Luca Rayola Pescarini non è mai stato un carabiniere. Proviene dall’Esercito. Ai nostri tentativi di intervistarlo ha risposto di non voler più apparire sui giornali italiani, dopo le polemiche degli ultimi anni. Ma ci ha confermato di essere stato scelto dall’Onu anche per la sua esperienza al Sismi e per aver formato, anni fa, proprio la polizia somala.
Due vicende singolari, specie per l’imbarazzo dei nostri interlocutori di fronte alle domande. Singolare anche il fatto che lo stesso ex sottosegretario Serri (responsabile della cooperazione), da noi sollecitato, non è riuscito a recuperare la documentazione. Ha aggiunto che il programma di ricostruzione della legalità dell’Undp «non è passato attraverso di noi», mentre l’Ufficio stampa della Farnesina conferma che l’Italia vi ha destinato i nove miliardi.
Barbara Carazzolo,
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